La maratona verdiana di Salerno procede a ritmo serrato. Dopo il felice avvio con “Rigoletto” (16-21 aprile), tocca ora a “Simon Boccanegra” (repliche fino al 27 maggio), cui seguiranno la tappa intermedia di “Nabucco” in ottobre e il traguardo finale di “Otello” in dicembre. Il secondo titolo scelto per onorare il bicentenario del maestro di Busseto è una creazione cupa e ostica, nella quale l’elemento amoroso si intreccia con altri temi assai cari al compositore, quali le lacerazioni prodotte dal potere, la congiura, i conflitti familiari, l’inesorabilità del destino e la forza oscura e terribile della maledizione. Nota è la travagliata storia della partitura, che debuttò infelicemente alla Fenice di Venezia nel 1857 e fu presto accantonata, salvo poi rinascere a nuova vita nel 1881 alla Scala di Milano, dopo che Boito ebbe rimaneggiato il libretto originario di Piave e, soprattutto, dopo che Verdi ebbe tolto, aggiunto e modificato, così da pervenire a una coesistenza precaria (ma proprio per questo affascinante) di scabra scrittura giovanile e tratti stilistici maturi. È in questa seconda versione che “Simon Boccanegra” ha progressivamente conquistato, non senza temporanee eclissi, il consenso del pubblico e ha raggiunto una posizione di tutto rispetto nella classifica dei lavori verdiani più amati.
Al centro dell’opera campeggia, dal punto di vista sia drammaturgico che vocale, il personaggio eponimo, che a Salerno si incarna validamente in Leo Nucci. Dopo aver da poco tributato un meritatissimo plauso al formidabile baritono (classe 1942) nel ruolo di Rigoletto, il pubblico della città campana torna oggi ad apprezzarlo nei panni di Simone. La complessa figura del corsaro che divenne doge viene tratteggiata da Nucci con profondità e varietà di accenti; la sua interpretazione risulta particolarmente efficace nei risvolti dolenti e nei momenti introspettivi, mentre un po’ in ombra resta il lato eroico del protagonista. Il personaggio di Amelia è restituito con bravura dal soprano cubano Eglise Gutiérrez, in grado di coniugare agilità e calore in una performance appassionata e appassionante (stranamente, il pubblico le ha riservato alla fine un consenso piuttosto tiepido). Carlo Colombara è un titolatissimo basso verdiano: il suo Jacopo Fiesco è impeccabile e maestoso, improntato a una gravità quasi ieratica. Il tenore Fabio Sartori è perfettamente a proprio agio nei panni di Gabriele Adorno, del quale rende con slancio l’irruenza e la passionalità; la voce è piena e potente, e rivela lievissime incertezze solo quando si assottiglia nel sussurro. La perfidia intrigante di Paolo Albiani trova espressione compiuta nel timbro caldo e seducente del baritono greco Dimitri Platanias. Completano il cast vocale Carlo Striuli (Pietro) e Francesco Pittari (capitano dei balestrieri). Sul podio Daniel Oren si conferma esegeta sensibilissimo delle creazioni verdiane. In questo “Simon Boccanegra” la sua bacchetta governa con sicurezza il flusso del tempo drammatico e fissa una lettura che è insieme duttile e coesa. L’orchestra e il coro (addestrato da Luigi Petrozziello) del teatro di Salerno rispondono con docile diligenza alle sue richieste, all’insegna di un’intesa ormai cementata dalla lunga consuetudine e dall’assiduo lavoro.
Nel solco della tradizione la regia di Riccardo Canessa, così come le scene e i costumi di Alfredo Troisi: lo spazio in stile gotico è costantemente dominato da possenti quinte di marmo bianco e nero, mentre fondali (parcamente animati dalle proiezioni di Jean Baptiste Warluzel) ed elementi mobili provvedono a connotare le diverse ambientazioni tra le quali scorre l’azione.
Teatro